L’ecomostro di Ilisu
- Dettagli
- Pubblicato: Venerdì, 07 Gennaio 2011 11:15
Nonostante i restauri, Hasankeyf ha i giorni contati. Sta per sparire ogni traccia della valle che ha visto nascere la nostra storia, l’alfabeto e i primi traffici della Via della Seta. Là dove passarono le avventure di Gilgamesh, dove gli assiri lasciarono il passo a romani, bizantini, mongoli, arabi, turchi e persiani, il villaggio scavato nella roccia abitato initerrottamente da diecimila anni, sono arrivate le ruspe e la dinamite. Fra qualche mese Hasankeyf verrà sommersa da una diga, Ilisu, che raccoglierà in 330 km quadrati tutte le acque del Tigri trasformando l’antico fiume in un lago profondo ottanta metri. Ottanta metri, come la finestra di Ali che era la più il alta nel villaggio di Hasankeyf. Ali, del resto, era soltato l’ultimo rimasto in tutta la valle. Il grosso della popolazione – gli sfollati saranno 78mila, in maggioranza curdi – era già stata cacciata di casa, senza una sistemazione alternativa, spesso coi fucili dell’esercito puntati addosso.
Anche perché è proprio l’esercito a volere questa diga. All’inizio a sponsorizzare questo prodigio della tecnologia moderna (costruito per sommergere le origini della cultura indoe europea, che ironia), ideato dal governo e dall’ex premier Demirel per porre sotto controllo le zone ribelli curde al confine con l’Iraq sfollandole e rimpiazzando i villaggi con un lago artificiale, promosso per apportare elettricità a Istanbul a spese delle migliaia di locali che vivevano grazie al turismo, c’era anche un consorzio di banche europee, fra le quali la nostrana Unicredit. Poi uno studio di fattibilità ha rivelato cosa sia in realtà Ilisu: una diga idroelettrica dalle dimensioni spropositate e destinata a non funzionare, costruita su un sito dal valore storico inestimabile, oltretutto a rischio sismico, eliminando specie uniche quali la iena zebrata e la tartaruga a guscio molle, e cancellando del tutto il popolo che da sempre ci vive. Gli europei si sono ritirati. Trovate due nuove banche turche disposte a finanziare questa impresa impossibile, i lavori sono ripresi la scorsa primavera. Nel giro di qualche mese le pareti rocciose hanno cominciato a incrinarsi, un massiccio è caduto uccidendo sul colpo uno degli operai che restauravano Hasankeyf.
«Criminali», è stato il responso di una equipe di ingegneri ed archeologi corsi ad ispezionare il sito quando, grazie alle foto scatate dai locali, hanno scoperto che nei giorni dell’incidente i lavori per la diga si facevano scavando sotto il massiccio di Hasankeyf a colpi di pale a idrogetto. Da allora la cittadella è stata chiusa per sempre al pubblico. Soltanto Ali, il cantante matto, ha continuato a salire e scendere fra le pareti di Hasankeyf, in mezzo al silenzio e alle baracche chiuse, pronte per venire grattate via dalle tonnellate di fango e pietrisco che le acque del “lago Tigri” riverseranno fra i monumenti una volta sommersi. A guardare Hasankeyf, a girare lo sguardo fra gli oltre duecento fra torri, tombe, moschee, e templi, a tenere i piedi immersi nelle acque che corrono veloci per mezzo Medio Oriente fino ad incontrarsi con l’Eufrate dopo Baghdad e gettarsi nel Golfo Persico, manca il fiato per credere ai propri occhi. Ma manca il fiato anche per urlare dalla rabbia. Se pare impossibile che un luogo del genere sia esistito per 10mila anni, provate a credere da ora a qualche mese, di Hasankeyf, non resterà che il ricordo balbettato in arabo di qualche anziano abitante. Che la Valle del Tigri verrà sommersa e distrutta da un lago che lascerà all’asciutto Iraq e Siria. E tutto questo, prima ancora che vi sia riuscito di vederla.
«UN VERO FLAGELLO AMBIENTALE»
«Intendiamoci, io non sono contro le dighe. Come principio, le dighe possono essere benefiche. Il problema è quando, invece di piccoli sistemi di bacini artificiali di 50 metri, ci ritroviamo con modelli come la diga di Assuan o delle Tre Gorge lunghe decine, centinaia di km. Che per l’ambiente sono un flagello». L’ingegnere Erjan Ayboga, specializzato in riabilitazione delle dighe presso l’univeristà Bauhaus di Weimar, del progetto di diga sul Tigri non è affatto convinto. Al punto di essere diventato uno dei portavoce della campagna per salvare Hasankeyf. A neanche un anno dall’apertura della diga delle Tre Gole in Cina, la più grande del mondo, la Turchia insiste a voler trasformare il Tigri in un lago a tutti I costi. Eppure il precedente della Tre Gole, che ha causato danni incommensurabili per un impianto che non funziona e un lago artificiale reso non navigabile dai rifiuti industriali, sembra non rovinare gli affari ai consorzi economici che fra Turchia, Brasile e Cina partono alla ventura sommergendo intere valli a colpi di miliardi. Anche perché spesso a motivare la corsa alla diga più grossa non è certo la produzione elettrica, quanto il controllo dell’acqua a tutti i costi. «Con tutte le fonti di energia pulita e rinnovabile di cui disponiamo oggi, non possiamo più considerare l’idroelettrico una risorsa affidabile rispetto al costo che comporta. Creare laghi artificiali di simili dimensioni significa lasciar evaporare un buon 6% dell’acqua che dovrebbe arrivare fino all’Iraq. Stiamo già assistendo a un declino pari al 10% annuo delle precipitazioni in Turchia e c’è il rischio di conseguenze anche dal punto di vista climatico. Un’altra controindicazione dell’idroelettrico di grandi dimensioni è sanitaria: sul limo che si crea svuotando e riempiendo il bacino una volta al giorno per azionare le turbine finiscono col prolificare zanzare da malaria e febbre gialla. Lasciare per strada 78mila persone, inondare 290 siti storici per produrre elettricità da mandare duemila km lontano, a Istanbul, mentre qui la gente non avrà neanche più la risorsa del turismo, è folle». Senza contare che le turbine hanno una durata di circa 70 anni, dopodiché la diga, riempita di detriti, diventa inutilizzabile. E al posto dei miliardi spesi per costruirla ci sono quelli pagati a ingegneri come Ayboga per risanare l’impianto. Cancellare 10mila anni di storia per soli 70 di uso non suona per niente come un buon affare.
Annalena Di Giovanni (Articolo pubblicato su Terra)