Succede almeno quattro volte all’anno, con cadenza trimestrale. Ogni volta è un nuovo scoop. Molti si allarmano – «ma quindi non è potabile?» – come se avessero vissuto su Marte negli ultimi dieci anni. Altri si indignano contro tutti e contro tutto a suon di scoppiettanti comunicati stampa e roboanti interrogazioni parlamentari, e poco importa se fino a qualche anno fa questi stessi, allora come oggi per meri scopi propagandistici, si affannavano a gridare allo scandalo per ragioni diametralmente opposte, magari protestando, paventando danni economici e di immagine per la cittadinanza se mai qualcuno si fosse anche solo minimamente azzardato a dire che l’acqua non era potabile, mentre l’Alaco pian piano iniziava ad avvelenarci tutti.
Adesso corrono sull’altra sponda, quella evidentemente meno inquinata o forse solo quella più utile per tentare di racimolare consenso. Quella meno fangosa dell’invaso, che ormai, già da troppi anni, ha assunto i contorni di una grossa palude nebbiosa avvolta nel mistero più totale. Un mistero fatto non solo di acqua “avvelenata” ma anche – non potevamo farcelo mancare – di soldi spariti. Di fondi distratti, circa 3 milioni pare, destinati all’ottimizzazione tecnica ed organizzativa dell’Arpacal – l’azienda regionale che detiene i laboratori per le analisi dell’acqua – ma che invece andavano a diretto appannaggio di privati. Un fitto giro di soldini creato, dicono gli inquirenti, addirittura con il placet di un ex commissario per l’emergenza ambientale, oggi indagato con altri nove.
E poi tanto ancora, anzi le solite cose. Elementi che già erano emersi nelle indagini precedenti e che tornano adesso nell’immaginario collettivo con la percezione del sempre “nuovo” scandalo sconcertante: «invece di analizzare l’acqua dell’Alaco attingevano dalle fiumare», scoprono fuori tempo massimo, con gli occhi e la bocca ben spalancati, sempre quelli che nell’ultimo decennio erano indaffarati su Marte. Poi nulla più. Tutto torna a ricristallizzarsi in quell’assoluto silenzio che un po’ riappacifica e un po’ inquieta.
Sì, lo si sapeva da tempo. Invece di classificare le acque campionandole dal bacino lo facevano direttamente dagli affluenti, ma in fondo a chi importa veramente. Anche stavolta non potrà servire a svegliare le coscienze delle piccole e grandi amministrazioni. Né dei sindaci, che per atto di compassione e clemenza verso la propria dignità potrebbero mettere sul piatto la semplicità di un gesto cautelativo, un’ordinanza di non potabilità che nasce – e non è poco – da quella dannata aleatorietà dettata dal tormento del dubbio; né della Regione Calabria che rispetto alla questione “Acqua Sporca” pare ancora intenzionata a porre in essere gli stessi ed identici provvedimenti della legislatura Scopelliti: l’indifferenza e il silenzio. Eppure proprio la Regione in questa inchiesta, anzi, in queste inchieste, che vedono protagonista l’Alaco, ci entra con tutte le scarpe, perché la Procura ha acquisito documentazioni anche presso gli uffici dei dipartimenti Ambiente, Obiettivi Strategici e Lavori pubblici. Agli indagati, tanto per rendere l’idea, sono contestati a vario titolo i reati di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche, di avvelenamento colposo di acque, d’abuso d’ufficio, omissione di atti e falso. Ma a noi che ce ne fotte? Apriamo il rubinetto e ci rinfreschiamo i polsi, sciacquiamo sotto la doccia la polvere dell’ultimo “terremoto Alaco” e poi riemergiamo di nuovo verso la solita vita. Tutto torna in standby, in attesa del prossimo scoop.
[Di Salvatore ALBANESE – Ass. Il Brigante]